Arcipelago

Arcipelago

Una tentazione, per il poeta odierno, potrebbe essere quella di riproporre temi e atteggiamenti cari al neoclassicismo e di considerare il mito come una trama fertile ove attingere contenuti (in mancanza di una trama fantastica – o di immaginazione) e su cui intrecciare una tessitura dell’elemento vitale della contemporaneità.

Altra tentazione potrebbe essere quella di leggere la realtà attuale, quasi come essa fosse innestata sul mondo del mito, che è stato lievito della lirica degli “antichi maestri”, piena di quei tumulti sentimentali da usare come humus in cui piantare il seme di nuova poesia.

Se tali tentazioni avessero parvenza di verità sarebbe stata compiuta una operazione priva di forza interiore. Sarebbe povera cosa partire da qualche elemento del mito per interpretare l’oggi, e sarebbe, oltre tutto, una operazione – come si può facilmente intuire – che svilirebbe la storia culturale dell’uomo.

Vero è che Orazio, già allora, affermava che ormai tutto era stato già detto (dai poeti precedenti) – per la verità esagerando molto – e che l’originalità poteva essere cercata (e raggiunta) nella variazione delle forme e dei modi; ma nella realtà contemporanea è possibile trovare una tale immensa miniera e varietà di contenuti di temi e di toni, tanto da poter evitare perfino una buona contaminatio col mondo della classicità.

Non dal mito ai problemi di oggi, dunque. Ma un processo inverso: sentire l’oggi e trovare che qualche elemento dei miti – del passato – fuso il più organicamente possibile con l’oggi, si ripete e si ritrova nell’oggi. E spesso con lieta sorpresa.

Più probabilmente la verità consiste nell’accettare il concetto che il mondo classico può ancora parlare agli uomini del terzo millennio affermando alcuni valori, mutati i rapporti storici, non tanto e non solo della poesia, quanto di idee-cardine, che possono ancora aiutarci a capire l’uomo, i problemi di oggi e ad esprimerli. E forse, si spera, a fare ancora poesia ed arte.

Elementi dei miti, dunque, da trattare come simboli o metafore o, semplicemente, strumenti con cui significare alcuni momenti fondamentali della contemporaneità.

O, comunque, la verità consiste nell’accettazione dell’idea dell’esistenza di alcuni archetipi dell’arte che sono principio e insieme legame indissolubile di linguaggi espressivi e dei loro contenuti nello svolgersi dei tempi, della storia del pensiero, delle forme dell’arte e della comunicazione di tutte le espressioni artistiche e non solo di quella poetica.

Possono essere facile exemplum “/ Figli di Dioniso ” ed il drammatico dialogo Icaro, sia nella individuazione, prima, del valore della autenticità del mito, e poi nell’ipotesi (e non solo ipotesi) della trasposizione temporale di esso nella attuale tragicità dell’esistenza umana. Purché, ovviamente, venga riconosciuta dal lettore la spontaneità compositiva e l’immediatezza delle citazioni-impressioni da un lato, e dall’altro sia stata bandita, dall’autore, ogni artificiosità: cose nelle quali confido e delle quali desidero rendere sincera ed autentica testimonianza.

Spero anche che mi si vogliano perdonare alcuni (troppo insistiti?) elementi di una visione amara del mondo contemporaneo.

Ma bisogna riconoscere che questa società, con i suoi vizi e le sue virtù, così drammaticamente ancorata all’apparenza, troppo spesso falsa e lontana dall’essere, che ha confezionato prodotti di consumo, tanto inutili quanto dannosi, e marciume in abbondanza, ci offre veramente pochi spunti di una gioiosa serenità.

Le traduzioni dal latino, pur tentando una resa musicale e ritmica dell’esametro e del distico elegiaco, sono molto vicine al testo e vogliono anche tracciare parallelismi e differenze con la poesia contemporanea. Esse possono essere considerate documento di una qualche linea di continuità attraverso i tempi, quasi sempre in modo del tutto casuale. L’intenzionalità, invece, è sottolineata da qualche verso in corsivo.

Delle illustrazioni, che traggono ispirazione direttamente dai testi poetici e colgono con certezza e straordinaria precisione immagini e momenti essenziali di essi, il commento è affidato al critico d’arte Antonio Picariello, che ringrazio per la sua preziosa collaborazione.

Desidero anche ringraziare il curatore della collana editoriale, Massimo Pamio, apparentemente parco di utili consigli e suggerimenti.

Un ringraziamento particolare va a Raffaele Di Virgilio (al quale ricambio, non per mero vezzo, l’immediato ed autentico sentimento di amicizia, nato senza ancora conoscerci, ma solo dagli scritti, per la sua eccellente, puntuale e, per certi versi, lusinghiera presentazione, che coglie, con precisa analisi oltre che con molteplicità e ricchezza di riferimenti, gli aspetti salienti dei testi originali come delle traduzioni dei poeti latini proposti.

Ringrazio, non ultimi, gli artisti molisani, i quali, molto benevolmente e gentilmente, mi hanno offerto la loro disponibilità e la loro pregevolissima bravura: Nino Barone, Ermelindo Faralli, Ettore Frani, Antonio Giordano, Luigi Mastrangelo, Lino Mastropaolo (purtroppo da poco venuto a mancare alla nostra amicizia e al nostro affetto) e Fabiola Mignogna.

L’Autore

PRESENTAZIONE

di Raffaele Di Virgilio

A debita distanza da ‘arcipelaghi’ filosofici alla Cacciari, e indipendentemente (o no?) dall’omonima lirica L’arcipelago, che coglie e segretamente addita nell”ordine’ sparso di un arcipelago esistenziale un’architettura per così dire geosimmetrica (articolata e sintetizzata in speranze/illusioni e disperazione/solitudine), il titolo di questa silloge poetica annuncia ‘rime’ sparse come isole, e a lettura avvenuta del lìber mi sembra particolarmente appropriato, talché mi piace sentirlo (e ‘ricantarlo’) come una lirica d’avvio, primo abbozzo in forma di didascalia monoverbale di un paesaggio interiore che appunto si sgrana in forma di arcipelago.

Umberto Cerio canta il suo passare per il mondo – macro e soprattutto micro-cosmo dell’anima: Jeu sui Arnautz que plor e vai cantan…-, ma le melodie che egli intona, così come quelle del ‘musicalissimo’ Daniel, sono musica senza ‘spartito’, perché il suo (loro) canto – che percorre un ampio registro tonale e tematico – ha la limpida trasparenza del logos-, che è nuda parola, anche se cova qualche nostalgia delle sue remote scaturigini melodiche, di quando l’uomo comunicava cantando come gli uccelli (O come Alcmane inventerò versi rubando alle pernici lo scaltrito gorgheggio, “Una coppa d’oro”): è prosa, sia pure ricca di suggestioni musicali, scandita e vibrante quale non è la prosa comunemente intesa, che invece si snoda in trame d’analisi, non esplode in sintesi balenanti, che fermano il tempo (ecco uno specimen fra tanti: ma com ‘è lontana la mia Itaca, ancora!, “L’approdo”). Nessuno ha mai spiegato né mai riuscirà a spiegare, senza il ricorso a fumosi misticismi, la differenza estetica tra la poesia e la prosa: l’avvento del verso ‘libero’ dovrebbe aver già da tempo sfatato il mito, duro quindi a morire, della diversità sostanziale fra i due media. Umberto Cerio, che usa il verso libero (e ‘barbaro’ con sapienza carducciana nelle traduzioni), è un buon poeta perché è un buon prosatore, e la sua formazione umanistica ne è la garanzia.

Come cantore del mito è anche un poeta coraggioso, perché non teme il confronto terribilmente impegnativo con i Dialoghi con Leucò del grande Pavese, di cui è noto il sodalizio ‘mirato’ con l’altrettanto grande Mario Untersteiner, massimo esperto della fisiologia del mito, che fu anche mio amico e con cui ebbi un’affettuosa corrispondenza epistolare (infine pateticamente siglata da sue lettere scritte con mano quasi cieca): né è il caso di istituire raffronti tra i due poeti: Cerio sfugge naturalìter all’ipoteca di quel confronto, dato che il suo approccio ai miti classici vuole avere uno spessore autonomo e personale, oltre che polivalente. Ecco perché, ad esempio, nei “Figli di Dioniso” Ino non diventa più Leucotea, cioè non è più la Leucò di Pavese, anche se entrambi consentono nella certezza che ai miti nessuno più crede (Cerio, “Il tempo e le cetre”); e la stessa versione pavesiana, tragicissima, del volontario abbandono di Euridice da parte di Orfeo (nel Dialogo “L’inconsolabile”) non tocca minimamente “Il pianto di Orfeo” {elegia per Orfeo del 2000) di Cerio, sublime ‘cantilena’ di morte – tali furono gli elegi delle origini greche – con cui l’autore, meno pressato da istanze filosofiche, resta fedele alla struggente ed eterna fedeltà del mitico poeta ignaro dell’ipoteca esistenziale del nulla.

Leopardianamente, e in misura maggiore che in Leopardi, la materia poetica in Cerio è fatta di miti, da intendere (al pari degli “Idilli ‘) come “situazioni, affezioni, avventure storiche” del suo animo, e ciò vale anche per gli exempla del mito classico, che il poeta assume d’impeto nell’area del suo gelosissimo privato; ed è opportuno sottolineare che anche la struttura dialogica di “Icaro”, lungi dall’esibire l’oggettività peculiare dell’opera drammatica, tradisce il lirismo esuberante e ‘tentacolare’ di una irriducibile dimensione monologica: Icaro e Dedalo danno voce ai precordi del poeta. Inoltre solo di rado i Realien della biografia esterna entrano, si intrudono direi, nel magico cerchio di quel microcosmo, e quando ciò avviene i luoghi (“Larino”, “L’anfiteatro”, “Ulivi”), i volti (“Eva”), le parole e i gesti (“Il dono”, “Inno ed Elegia”) si caricano di un pathos personalissimo, stemperandosi in simboli di una ‘egoità’ dolente ed insieme fidente, altalenante fra l’elegia e l’inno. Non fa eccezione a questa norma nemmeno la lirica “Pietre del tempo” – la “Ginestra” di Cerio! -, dove il nobilissimo impegno civile, che contrasta con l’attuale imbestiamento globale dell’uomo, si traduce in una vibrante protesta d’amore, scandita da una “Ich-Wiederholung” diretta a convogliare ineluttabilmente nel cuore del poeta le “pietre” che hanno accompagnato la storia dell’umanità dalle origini fino alla odierna epopea risorgimentale della Palestina (trascrivo la chiusa): Non amo te, uomo assassino o padrone, anche se da secoli stai I su una croce di pietra. E sono qui, tutte nel mio cuore, le pietre del nostro tempo.

Come Cerio stesso ci fa presagire con la Nota che qui precede -quasi specchio ‘autoreferenziale’ della raccolta (penso a Narciso e a Pig-malione!) – certe sue poesie, in cui il suo “io” si staglia non solo come soggetto/oggetto dell’avventura della vita, ma anche come specifico operatore d’arte (si pensi ad avvii come Vieni! Voglio offrirti… in “Una coppa d’oro”; Scriverò… in “Naufragi”; Potessi avere anch’io cento bocche… in “Cento cetre”), sono espressione, per così dire, di “metalirismo”, come effusioni della sua fantasia/coscienza poetica che si ripiega e riflette su se stessa e sulle sue risorse, con effetti altamente suggestivi di sincerità e di autenticità, delle quali la Nota ospita una schietta professione (il poeta lirico tende per ovvie ragioni a identificare, romanticamente, la sincerità psicologica con quella artistica; ma c’è chi sostiene che la ‘sincerità’ dell’arte è quella dell’attore, il quale deve esibire l’artificialità – non certo l’artificiosità – della scena, diffidando lo spettatore dal credere che il mondo dell’arte sia un doppione della vita reale).

Ancor più evidente, come spia della matrice colta – vorrei dire culta – della silloge che ho il piacere di presentare, è il procedimento di poetica che chiamerei “interlirismo”, cioè l’assunzione intertestuale in ambito rigorosamente lirico, proiezione ‘eteronoma’ – quasi “monade con finestre” – del soggettivismo ‘metalirico’ che invece ne è senza. Quelle “finestre”, come l’autore stesso ci indica, sono talvolta aperte al pubblico con sottolineature; ma la maggior parte di esse resta coperta da un velo, sia pure tenue, e richiede di essere disvelata per una comprensione partecipe delle ‘perle’ nascoste nei ‘gusci’ di tante squisite e segrete’ memorie intertestuali (Giorgio Pasquali le chiamerebbe “arte allusiva”). Al lettore attento – chiedendo venia per due brevi intrusioni fra parentesi – riserviamo il vezzo e il gusto di cogliere echi ‘metabolizzati’ di Foscolo (E ascolterò il rumore, incipit di “Attesa”, che rinvia alla partenza, “sul treno già in corsa”, di “A Zacinto”: Né più mai rivedrò le sacre sponde) Leopardi, Carducci (non solo ‘classico’, quest’ultimo, ma anche ‘romantico’, e penso a “Passi di danza” dove è avvertibile un’eco sapiente di “Nevicata”), Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Ungaretti, Montale; per non dire dei poeti antichi, soprattutto latini, di alcuni dei quali Cerio si cimenta anche come traduttore, con esiti di ri-creazione che – data la profonda sintonia lirica con i modelli, selezionati con intuito infallibile – risultano convincenti al pari degli originali e delle liriche “di produzione propria”. Va comunque puntualizzato, ad onor di Cerio, che proprio quella sintonia profonda ha facilitato il traduttore nel trasporre con bellezza e fedeltà e senza particolari funambolismi il carmen latino in italici versi (trascrivo dalla sua “translatio” del Congedo del 3° libro delle Odi oraziane): non è proprio il caso, quindi, di riesumare per le traduzioni in parola l’etichetta di “belle infedeli”, escogitata da Benedetto Croce anche per difendere pessime traduzioni ammannite da

breitling replica, replica watches, replica rolex, louis vuitton outlet online incompetenti ‘d’ingegno’.

Un saluto affettuoso a Umberto; leggerlo è stato diventargli amico!

Raffaele di virgilio

DISEGNARE IL MITO

di Antonio Picariello

Si parte con l’idea di dare immagine alla parola, ma mano a mano che ci si inoltra tra i legamenti labirintici delle significazioni, la parola diventa sintassi emotiva che raccoglie la bellezza profonda dei codici e delle grammatiche classiche, per ammaliare il cuore dell’umanità più remota e riportarla con sapiente leggerezza nella contemporaneità. C’è negli stati d’animo di questa poesia, offerta agli dei e ai miti – e interpretata dai segni di sette chiari artisti – la stessa intensità cardiaca che ha consolato l’incontro di un disperso pellegrino del ventesimo secolo con le pareti preistoriche di Altamira: immagini di animali taurini, disegnati componendo la forma con lo stesso midollo dei soggetti rappresentati, misto alle terre rosse e riscaldato. E’ la narrazione lungo le pareti della grotta del buon auspicio alla caccia e il desiderio di possedere, attraverso l’opera dell’artista, l’anima e l’animale, per diventarne, per diritto divino, in un dignitoso rapporto esistenziale fatto di cibo e di vita, il lecito possessore. E’ dietro la potenza di questa attività, tipica ed esclusiva all’umanità, che riproduce la capacità di cacciare l’animale con l’arma della rappresentazione, ancora prima di incontrarlo realmente con i sensi e le percezioni in dotazione alle specie, il valore dell’arte e il dono della superiorità evolutiva. Un’ipotesi di logica surrealista potrebbe riflettere sul fatto che se anche l’animale avesse avuto la capacità di saper disegnare l’uomo, di rappresentarlo o di riprodurlo in un segno poetico, avrebbe potuto, di controcampo, possederlo o esortarlo a perdersi lungo i percorsi della caccia, come ci racconta l’ormai museale origine della psicanalisi intesa in Totem e Tabù… E’ sulla scia di questi presupposti che si definisce il valore e la qualità dell’opera d’arte, ma soprattutto sul ruolo che designa l’artista come interprete universale della sua stessa capacità emotiva e di profonda sensibilità che produce la sostanza e l’energia degli eventi, senza la presenza reale dell’oggetto della visione. L’artista è l’unico universale detentorc del sapere i tempi di conclusione dell’opera, a differenza dell’artigiano, che, seppure dotato di qualità e talenti eccezionali, conclude l’opera quando questa corrisponde e soddisfa tutte le esigenze funzionali richieste dal progetto. Si tratta, dunque, di un archetipale artista che si rivolgeva alla protezione degli dei, offrendo la sua disponibilità di conoscitore del mondo. Alla pari questa poesia raccoglie l’esperienza intellettuale di un intero impegno di vita; è la conclusione e l’avvio di una nuova missione dell’arte che riporta a noi lettori, attraverso una nuova idea strutturale, una nuova emotività per poter pensare e sentire con armonia nell’ambiente attivo delle tante metamorfosi della comunicazione contemporanea.

Si parla allora di segni del futuro, intesi come segni letterari del linguaggio poetico, in sodalizio con i segni pittorici. Una sorta di attività e interazione ludica tra ideogrammi e pittogrammi per una “rivisitazione” del futuro, tramite il racconto mitologico e l’interpretazione di quell’anima scritta in versi, che riferisce, per un certo senso, di segni anticipatori d’eventi a venire. Quasi una nouvelle figurazione, una semantica che avvicina i periodi storici di transizione, come quello contemporaneo all’immaginario medievale che assegnava ai fatti, come l’apparizione della cometa, un segno dell’apocalisse che stava per giungere, ma nello stesso tempo era già parte di essa.

In Icaro c’è l’incontro “drammaturgico” tra un padre e un figlio: il primo, l’architetto Dedalo inventore del labirinto, pregiato archetipo adattabile a tutte le metafore dell’universo, tanto che l’universo stesso, con gli occhi moderni di Borges, si pone al suo servizio per definire e definirsi, e trova fallimento nella trasmissione del sapere verso la sua continuità, verso la sua discendenza diretta. Qui la poesia parte dalla storia comune e approda al dramma di tutti i padri contemporanei, che non sanno come veicolare il proprio sapere del mondo e della vita per evitare la perdizione dei propri figli. Barone traduce Icaro in un giovane angelo alato, che, sotto un accecante sole, strapiomba sulla città-labirinto verso la propria animalità terrestre che lo attende disincantata (un Minotauro come lo intendeva Clerici riportato in Geocartoon, nell’atto incerto di voler aiutare l’angelo cadente). La composizione contempla sapientemente il rapporto diurno e solare nel volo di Icaro con la controparte notturna simboleggiata dalla luna sopra la città-labirinto. La solarità del sapere cade di fronte alla condizione occulta della quotidianità metropolitana (padre cosa facciamo prigionieri in questo immenso palazzo… condizione iniziale, ma anche terminale del racconto). Così in Arcipelago, il conforto dell’amore e del ricordo silenzioso sostiene la vita in mezzo alla solitudine di un mondo pietrificato dalla sua stessa avidità distruttiva, come petrolio che da energia si trasforma in materia mortale nello straziante arcipelago della disperazione: sono testuggini a rappresentare il tempo e l’antica saggezza naturale (che qui attende un segno divinatorio e di salvezza, desiderato intensamente), con il collo irto, come assetate nel deserto dell’arcipelago infuocato, quasi a ricordare la perduta dinamicità di un cormorano soffocato dal fango primordiale in attesa di una spiegazione che nessuno darà mai. Diverso invece il folle grido nella Città dell’aria, che Faralli vede svolazzare in un vortice di case, come un sogno del mago di Oz, che lascia l’interpretazione centrale della turrita geometria libera di sfogarsi davanti alle sensazioni migratorie (come haikù) che trasforma il sentire di un attimo nella qualitativa visione notturna di un circolo di pensieri e di riflessioni aeree. Il tempo, in Mastropaolo, diventa il segno iniziatico, figure che in Krònos si riappropriano di uno stile tipico, riconducibile alla Pop art, come all’arte archetipale, fatto di sensualità narrative quasi inquietanti, vicino alle funzioni rituali che al mito fanno da controcanto. Ne II pianto di Orfeo gli elementi della composizione si estraggono come una canzone dalle immagini letterarie e si disegnano sotto forma di storia d’amore e di morte. ” Tu conosci tenerezze e languori… Tu sai la dolcezza dell’ora… Tu vedi l’angoscia delle strade desolate… “: Frani, che insieme a Mignogna riordina il ciclo generazionale con la visione più giovane, ma già bene saldata nel campo dell’espressività artistica, raccoglie la forma della morte e la sua conseguenziale rinascita, traducendo in maschile l’immagine di una Ofelia annegata da cui spunta un enorme stelo di grano, quasi “sovietico” a rappresentare, anche con forte erotismo, la memoria, con un punto di vista sincero, un punto zero, maturo, da dove può ripartire la nuova conversazione per il futuro dell’arte. Fabiola bilancia, con la sua consueta fantasmagoria, il segno coreografico, dove “la dolcezza dell’ invisibile pania dei tuoi pensieri, ove i miei desideri s’addensavano e si impigliavano e vi morivano lenti. ” Una scena teatrale dove abiti vuoti, carichi di personalità, lasciano scie invisibili come i passi nella danza “dell’alba morente, nel buio dove a morire sono anche le certezze, anche le tracce” che nell’opera diventano segno e sostituiscono una sorta di mappa mentale, dove oriente e occidente indicano solo una via, una sensazione, una parola, una semplice coreografia da teatro. Consueto l’autoritratto di Mastrangelo, che raccoglie i suoi gesti più sensuali e pieni trasformando in un ornamento floreale un’idea ornamentale tipica della fabulazione e del mito. Raffigurazione fantastica fatta di immagini epifaniche che incitano a liberarsi dal mondo fenomenologico per entrare in uno spazio mentale dove naviga l’immagine soffice, la parola significante che rimanda sempre all’invenzione di giochi da giardino, verdi, tra le siepi e i colori floreali. Naufragi è un’isola africana a forma di capo su cui galleggiano attraenti zebre a richiamo di una scrittura fatta di colori che recitano un verde su foglio bianco, sangue rosso sul foglio nero e l’acquaforte su foglio viola. Un mantra di colori, dove la centralità della testa richiama una sorta di umanità prioritaria nel regno della natura e della naturalezza, dove il rimando degli sguardi tra zebra (verso l’osservatore) e uomo drammaticamente assorto nei suoi pensieri ci dice: Racconterò, così, favole antiche, e canterò mio padre che raccontava…. Ma è anche Ofelia e Narciso che titola l’opera e la dedica esclusivamente a questa poesia quasi a identificare negli equini i personaggi mitologici, così come piace agli autori: al poeta e al pittore…

“Per l’Approdo il titolo del disegno è: Arca della memoria. I blocchi di pietra rimandano all’immagine dell’arca biblica. Da uno di essi emerge prepotentemente un simbolo archetipo. La figura in primo piano in atteggiamento pensoso e dal volto coperto, il cielo pesante, il mare dall’aspetto oleoso, suscitano il senso lirico dell’enigma. Per Cento Cetre il titolo del disegno è: Le onde dei sogni. Da un limpido mare riaffiora una monumentale cetra che solo agli dei è dato il potere di fare vibrare. Un volto specchia nell’acqua i sogni che vengono trascinati dalle onde.” Giordano descrive letteralmente le sue opere. Niente di meglio della voce dell’artista per appagare la nostra necessità interpretativa. Va solo aggiunto che il segno e la scelta dei soggetti, per questa lirica vocale, nella mano dell’artista diventa un segno naturale; come dire: cuore poetico e anima disegnata si ritrovano come due fratelli gemelli davanti alle foto di famiglia…

Vale allora domandarsi, come per la grotta di Altamira, se si ha qui a che fare con una delle modalità di anticipazione segnica, che sono già inscritte dentro la lingua, dentro le strutture discorsive e grammaticali. Riguardo a ciò un gruppo di semiotici aveva studiato i meccanismi sottostanti i sistemi di divinazione, ma a noi piace pensare – e soprattutto sentire – che si tratta in qualche misura di un meccanismo di anticipazione che può servire per la ricostruzione del passato, ma può rivolgersi verso il futuro con valore predittivo come una poesia e un segno che, man mano che passeggiamo nei nostri pensieri e nelle nostre riflessioni, ci dicono che la vita ci appartiene con tutta la sua bellezza. E la bellezza consiste solo nel saperla ascoltare, nel saperla vedere

L’arcipelago

Erano insonni le ore dell’ansia
nei deserti lontani del sole,
nelle pianure del desiderio,
nel delirio dell’azzurro dei voli:
erano l’arcipelago delle mie speranze.

Tu che mi lusinghi coi tuoi occhi,
tu che guardi i miei giorni vaganti
per offrire certezze e illusioni,
tu che mi attrai coi tuoi sogni
e lenta parli al mio animo nudo,
e tu che mi tenti col silenzio,
alto, nelle notti di attesa,
più dell’oceano dei miei pensieri:
siete l’arcipelago delle mie illusioni.

Il sangue degli eroi s’aggruma
sulle spade e sugli scudi spezzati;
nessun dio più s’annuncia col profumo
dell’ambrosia a proteggere gli uomini;
il pugnale di Gianciotto non entra
più nelle carni di Paolo e Francesca;
il geranio annerisce nel vaso abbandonato;
il petrolio uccide le testuggini;
nel deserto nascono palme nane
con teschi appesi dagli occhi vuoti:
straziante arcipelago della disperazione.

Gli alberi, stanchi ad aspettare
streghe e folletti, neri fantasmi
sembrano di favole antiche.
Invisibili dita sfogliano
inquiete pagine a raccontare
un lontano pianto dell’anima,
abbandonata dietro un muro di pietre,
e la tempesta dei nostri sogni
risuona sui fili dell’arpa spezzata:
arcipelago di un’infinita solitudine!

II
dopo tremila (?) anni
S’ode tuttora quell’urlo del mare
dal grigio cemento di labirinti
di oggi, che son disadorne aggressioni
al paesaggio ed alla vita dell’uomo,
ed il figlio volge al padre lo sguardo
per sapere ora il destino del mondo.
Ed il padre, in silenzio, gli promette
d’insegnargli a volare oltre le mura.

ICARO
Padre, prigionieri resteremo per sempre
in questi cadenti edifici
dove s’inseguono cortili monotoni
sempre più squallidi e freddi?
Perché non andiamo alla luce,
alle spiagge assolate
al profumo del mare,
ai mandorli in fiore,
tra la gente che respira nell’aria?

DEDALO
Figlio, lasceremo l’angustia
dell’indifferenza e dell’odio,
monumenti perenni
all’inutile orgoglio dell’uomo,
statue informi d’idiota follia.
Ti insegnerò a fuggire quei miti
che pane nero furono un giorno
e sono ancor oggi.

ICARO
Ma perché, padre, hai costruito
anche tu un mondo che biasimi,
se tu stesso fuggire lo vuoi?
Chi, e che cosa a tale follia
ti condusse e quale tiranno
impone leggi inumane ed ingiuste?

DEDALO
Non uno, ma mille tiranni
guidano navi verso porti
dove livido il mare ribolle
della loro ingordigia insaziata.

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One Comment

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