INTRODUZIONE DELL’AUTORE
Questi Dialoghi vogliono rappresentare il percorso della vita e della storia dell’uomo, colta attraverso momenti archetipici, dopo dei quali nulla è stato più come prima, non solo per i diretti protagonisti.
Gli stessi miti, come gli eventi realmente avvenuti o immaginati come possibili, vengono qui assunti, di volta in volta, come reali o come simboli della esistenza umana nel suo scorrere.
Sono dialoghi inventati, anche se verosimili, che traggono ispirazione dalle leggende o dalla mitologia o dalla tragedia greca e vogliono riferirsi sempre ad una attualità che riproduce, anche oggi, consapevolmente o meno, mito storia e leggenda. Talvolta l’attualizzazione ha “preteso” la modifica e la “violazione” del mito in qualche sua parte, perché la mentalità e il comportamento dell’uomo di oggi, a fronte di quanto è rimasto immutato, registrano mutamenti sostanziali.
Il mito e le leggende, inoltre, vengono assunti in quanto è necessario mantenere la solennità della denuncia e/o dell’ ammonimento.
Il filo che lega i dialoghi, dunque, come si diceva, è la storia dell’uomo, che è storia di eventi, ma anche, nello stesso tempo, storia delle sue avventure e sventure interiori: dalla guerra (nei suoi atti eroici dei primordi della civiltà all’efferatezza dello scoppio della bomba atomica) ai più intimi drammi (incesto, tirannide, schiavitù, disobbedienza, disperato eroismo, ecc.) fino alla catastrofe ecologica, con la distruzione della vita dell’uomo e degli altri esseri viventi dell’intero pianeta.
* * * *
Pur tuttavia in questi dialoghi, destinati anche alla rappresentazione scenica, non si intende ricostruire in modo sistematico la storia ed il mito in cui essi si collocano, né si vuole semplicemente riproporre tout court la psicologia di quei personaggi né il loro atteggiamento, fermati in quel momento particolare, ma si è cercato, come già si accennava, un riferimento di quei personaggi e di quegli eventi alla realtà attuale: alle guerre di oggi, all’efferatezza di oggi, ai drammi interiori di oggi, senza tener conto delle verità storiche o del mito, ma cercando l’invenzione e la poetica ricostruzione di personaggi ed eventi che possano avere – anche oggi- una precisa significazione.
Nell’opera di Omero, come nella tragedia greca, nel mito, non ostante concetti rigidi come quelli di destino, sorte, virtù, divinità, ecc. non “regna (sempre) un rigido determinismo”, come ci ricorda G. Carotenuto, e “dèi e uomini vivono una loro vita reale, piena di passioni, di gioia e di dolore, di amore e di odio, di sentimenti di cui è fatta la poesia, in una parola”.
E gran parte, possiamo noi affermare, di quella vita, di quelle gioie, dolori e passioni, è ancor oggi presente nell’animo e nella mente degli uomini d’oggi.
****
Questo secolo, (e questo millennio) si è aperto allo stesso modo di come si è chiuso, da poco, il precedente, purtroppo senza grandi segnali di mutamento positivo, che possano generare ottimismo. Anzi, sul nostro pianeta, oggi, nel momento in cui stendiamo queste note, si stanno combattendo ben quaranta guerre.
L’uomo sembra, perciò, ovunque soccombere alla logica assurda di un ineluttabile destino di violenza. Oltre alle guerre, infatti, in ogni punto del globo, si consumano continuamente delitti di indicibile ed inspiegabile efferatezza.
Al di là di ogni considerazione, i “dialogoi” vogliono mettere l’uomo di fronte a se stesso, alla sua storia, e di fronte alle sue responsabilità che hanno causato guasti morali, civili ed ecologici, non sappiamo fino a che punto rimediabili, né sappiamo se l’umanità sia giunta, per quanto riguarda il guasto ecologico, al punto di non ritorno.
Se fosse vera la prima ipotesi, della possibilità, cioè, di rimediare a tali guasti, questi dialoghi sono un urlo di forte protesta e di ammonimento; se invece fosse malauguratamente vera l’ipotesi di essere giunti ad un punto di non ritorno ( e vogliamo dirlo in tutta umiltà e con sgomento) essi rappresenterebbero il canto del cigno dell’umanità sull’orlo del suo irreparabile abisso.
PRESENTAZIONE
di Raffaele Di Virgilio
Fra i tanti capolavori, che in forma di dialoghi additati anche dal frontespizio costellano l’orizzonte della letteratura occidentale, i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese tornano ad imporsi all’attenzione del lettore di quest’opera di Umberto Cerio – come già mi sono stati evocati dal bellissimo Arcipelago cenano – perché nei “Dialoghi” dell’uno e dell’altro poeta, pur nella radicale diversità delle loro poetiche (non a caso Pavese è anche romanziere, mentre le sintesi balenanti del lirismo di Cerio non sono coniugabili con l’analisi della narrazione romanzesca), è dato cogliere una comune matrice classicistica, altamente produttiva perché sostanziata di una lucidissima fede nei miti greci, rigorosamente storicizzati e ‘scarniti’ nella loro essenziale dimensione archetipica ma insieme ‘rimpolpati’ con l’apporto vitale e decisivo dell’attualità “presente e viva”, che in essi trova puntualmente rispecchiate esperienze inedite e oltremodo significative, più importanti di qualunque altra esperienza umana. Non fu un caso che accanto ai sonniferi che in una stanza d’albergo uccisero Pavese facesse mostra di sé una copia dei Dialoghi con Leucò. La predilezione dell’autore per quell’opera fatta di… chiacchiere (mito, gr. mythos, significa semplicemente “parola” !) non sembri strana: l’antropologia ha già da tempo dimostrato che dalle “chiacchiere” dei miti (autentici) – che pur sono mere tessiture di parole, dietro cui c’è un assoluto vuoto documentario – si sprigiona una inaudita forza di condivisione culturale, alimentata da una fede incrollabile in valori da difendere senza esitazione, anche col sacrificio della vita: si pensi al mito epico-pastorale dell’onore, incarnato per l’eternità dagli eroi omerici, o a quello della dignità etnica dei kamikaze palestinesi, portatori di una residua cultura orale nomadica, radicalmente diversa da quella alfabetica, contadina perché ‘civile’, degli ebrei; ma il presente discorso vale anche per i miti autentici dell’uomo occidentale odierno, che sono potentissime ‘estensioni’ culturali dell ‘uomo/denaro (Chremat’anér! gridava con severo disincanto Aristodamo di Sparta, disgustato da quelle che a distanza di molti secoli Cerio chiama “ricchezze private”) ed hanno vita esclusivamente ‘sotterranea’ perché sono rimossi dal super-io in quanto ostici alla coscienza morale: nessun poeta infatti avrà mai l’improntitudine di inneggiare all’auri sacra fames e ai suoi accessori, e Cerio lo sa meglio di noi, così come la netta preminenza da lui attribuita alla necessità di un ancoraggio del poeta all’attualità è in perfetta sintonia con queste puntualizzazioni esemplari di Pavese: “La cultura deve cominciare dal contempo¬raneo e dal documentario, dal reale, per salire – se è il caso – ai classici. Errore umanistico: cominciare dai classici” (Il mestiere di vivere, 18 febbraio 1950).
La straordinaria importanza del mito, considerato in ottica generalizzante, può essere evinta da due opinioni divergenti, comunque molto significative, espresse da Nietzsche e da Robbe-Grillet con puntuali preannunci dell’articolata mitopoiesi binaria di Cerio: “L’uomo, oggi, privato del mito, si aggira fame¬lico fra il suo passato e deve scavare freneticamente alla ricerca di radici, fosse pure fra le antichità più remote. Che cosa significa la nostra grande fame di storia, il nostro aggrapparci ad innumerevoli altre culture, il nostro bruciante desiderio di conoscenza, se non la perdita del mito, di una patria mitica, del grembo mitico? (Nietzsche); “In ogni circostanza, in questo preciso momento, la società in cui vivo è una società di miti. Tutti gli elementi che mi circondano sono elementi mitologici” (Robbe-Grillet).
Ai fini di una proficua lettura dei Dialogai – mitici anche solo perché dichiaratamente archetipici – può essere ancor più utile puntualizzare che in senso stretto il mito classico è la narrazione di vicende collocate in un tempo lontano che si suole chiamare “passato assoluto” perché risulta svincolato dalle coordinate tradizionali del tempo storico. A questa definizione non contraddice nemmeno il Dialogos intitolato L’efferatezza, pur nella precisione dei dati spazio-temporali (“Hiroshima, 6 agosto 1945, ore 8,10″: si noti il carattere efferato anche della scelta statunitense dell’orario, dettata dal fatto che a quell’ora la stragrande maggioranza della popolazione non era difesa dallo ‘spessore di dimezzamento’ delle pareti domestiche perché si stava recando all’asilo, a scuola o ai posti di lavoro). Il lettore tenga conto che quel¬l’immane e gratuito massacro storico è il penultimo atto di una tragedia che si conclude con il Dialogos intitolato La catastrofe, in cui la denuncia di quella efferata barbarie cede il posto ad un monito di portata cosmica che non a caso viene posto da Cerio sulle labbra degli infelici coniugi Priamo ed Ecuba (espungendo dal mito, in magnanimo omaggio al Filottete sofocleo, la sacrilega uccisione del vecchio re da parte di Neottolemo figlio di Achille), i quali – divenuti ombre e già protagonisti del primo Dialogos, intitolato appunto La guerra – implicano nella loro diagnosi retrospettiva tutti i “momenti archetipici” della storia umana: guerra, tirannide, incesto, disobbedienza, efferatezza, tutti indistintamente contrassegnati da una dimensione mitica, cioè paradigmatica ed extratemporale come quella delle cinque età (ghene) di memoria esiodea e perciò svincolata dalle coordinate storiche di cui sopra. Va solo puntualizzato che rispetto al ciclo mitico greco (e poi latino) di quelle età i mitemi di Cerio sono intrisi di un più cupo e radicale pessimismo: l’ombra di Ecuba giunge a registrare come imminente la morte della morte stessa, di quella morte che il genio di Lucrezio celebrò come immortale! Ma è pur vero che anche Cerio – né potrebbe essere altrimenti, e ciò a prescindere rigorosamente dalla sconfitta cristiana della morte – apre uno spiraglio di salvezza nello scenario di grigia e totale desolazione, che egli chiama “non-luogo” e che si colloca non solo oltre lo spazio, ma anche oltre “il buio” e “il silenzio”, perfino oltre “il dolore”. Cerio sa bene che il poeta ha il compito primario e inderogabile di aiutare a vivere e che quindi anche la tragedia attica e l’Ecclesiaste sono, in ultima analisi, sublimi inni alla vita; ecco perché l’Edipo sofocleo si avvia, al momento della catastrofe, verso un immediato futuro di abiezione che prelude però ad un remoto futuro di santificazione; ed ecco, puntuale e rasserenante, lo sguardo presago che l’ombra di Priamo nell’ultimo Dialogos rivolge “ad un più remoto /futuro, forse rigeneratore /dell’uomo, della vita e della morte”.
Essenzialmente mitica è la ‘storicità’ apparente dell’amore ‘cosmico’ di Nashimura ed Okohani: grazie alla ‘magia’ del mythos la vicinanza storica si trasfigura in lontananza epica e rende i due moderni eroi del Sol Levante miticamente coevi alle coppie Antigone/Emone e Ippolito/Fedra, nonché Priamo/Ecuba e Dedalo/Icaro; e forse non è inopportuno rilevare, in tal senso, che la mitizzazione epica di quei due giovani amanti, e il loro naturalissimo volo à rebours nello ‘spazio’ acronico del “passato assoluto”, sono favoriti dalla loro esoticità: la grande lontananza geografica supplisce alla breve distanza cronologica, prolun¬gandola col renderla ‘cronotopicamente’ omologa a sé – chi non sa che il tempo è figlio dello spazio? – e producendo l’effetto di un ingigantimento epico-mitico dei protagonisti: per convincersi di ciò basti pensare alla strepitosa mitizzazione epica di Sandokan ad opera di Emilio Salgari, scrittore non grande ma abbastanza intelligente per capire che il fascino irresistibile dell’Odissea omerica si sprigiona dal seno di una poetica esotizzante.
Le vicende del mito inteso in senso stretto come “narrazione” – e quindi anche come dialogo/teatro: per Pavese Omero è teatro antelitteram (22 marzo 1947) – hanno come protagonisti esseri superiori i quali con il loro agire e il loro soffrire – proprio come gli eroi di Cerio, che anche di ciò ha piena coscienza – illuminano con immediatezza intuitiva il significato della presenza dell’uomo nel mondo e nel particolare contesto storico e istituzionale che lo ospita. A tal riguardo si può estendere al mito ciò che Italo Calvino ha detto della fiaba definendola suggestivamente “catalogo dei destini umani”: l’identificazione delle due forme di narrazione (con rigorosa esclusione della favola, che si caratterizza per un intento dichiaratamente e trivialmente didascalico) è stata esperita da Lévi-Strauss e risulta comunque fatta propria, con… implicita evidenza e con la mente rivolta all’homo faber, anche da Pavese nell’apoftegma del 1° febbraio 1950 dell’opera già qui citata: “La volontà si esercita sui miti e li trasforma in storia. Destini che diventano libertà” (la sottolineatura è mia). E’ in questa ottica libertaria che vanno assunte, in vista di un ponderato giudizio critico sulla poesia di Cerio, queste altre puntualizzazioni formulate da Pavese nel Mestiere di vivere: “Tema di un’opera d’arte non può essere una verità, un concetto, un documento ecc, ma sempre soltanto un mito. Dal mito direttamente alla poesia, senza passare attraverso la teoria o l’azione” (9 febbraio 1950: Pavese anche qui ha ragione da vendere, dato che la parola/mythos nasce sempre come performance poetica orale); “La poesia è ripetizione. E’ venuto a dirmelo allegro Calvino. Lui pensava all’arte popolare, ai bambini, ecc. Per me è ripetizione in quanto celebrazione di uno schema mitico”… fatto di “ritmi, ritorni, destini” (sviluppo di un pensiero del 10 gennaio 1950, che si adatta benissimo alla sapiente ripetitività “dittica” di Cerio).
I miti platonici, fatta eccezione per quello archetipico di Atlantide – che in effetti pur con personali adattamenti appartiene alla tradizione mitopoietica dei Greci e perciò più degli altri potrebbe essere coinvolto dal presente discorso sulla poesia ceriana -, risultano essere poco pavesiani e poco ceriani non perché siano il frutto della fertile fantasia del filosofo (si pensi ai miti di Er, dell’auriga o della caverna), ma perché, lungi dal muovere verso “la teoria o l’azione”, provengono proprio dalla teoria filosofica, di cui sono i ‘galoppini’. Il sommo filosofo ateniese può comunque essere qui chiamato in causa, come insigne precursore di Cerio, dalla monotematicità, parallela a quella ceriana, di quattro suoi Dialoghi, incentrati sul tema dell’amore: mi riferisco al Simposio, cui si affianca il Fedro, seguito a distanza – per ordine di ‘merito’ – dal Carmide e dal Liside. I sei Dialogoi di Cerio possono anch’essi essere intitolati Dialoghi dell’amore, e ciò per ben precise ragioni strutturali e contenutistiche, non soltanto, quindi, perché ogni forma di vera poesia è un atto d’amore per la vita e per i viventi (in questa ottica infatti la philia di Empedocle sarebbe qui coinvolta con molto maggior pertinenza): quei sei momenti archetipici della passione e della ‘morte’ dell’umanità sono scanditi da altrettanti poliedrici incontri d’amore, che si concretizzano nelle forme esemplari e definitive della parola poetica; né il dialogo “dittico” tra Dedalo ed Icaro – che non a caso preesiste alla sapiente architettura dell’opera, avendo già avuto una sua collocazione editoriale in Arcipelago – deve apparire una sorta di hors d’oeuvre a motivo del fatto che quell’interlocuzione si sostanzia di affetto paterno ed affetto filiale: nell’ottica cosmica dell’esade ceriana una distinzione fra eros e philia sarebbe fuori luogo, e ciò va detto indipendentemente dal fatto che essa distinzione sarebbe priva di senso all’interno dell’ottica, anch’essa sideralè, di Piatone, il cui eros fa tutt’uno con la philia già soltanto perché è, appunto, platonico; e a tal riguardo è opportuno richiamare l’attenzione sulla sconvolgente tragicità di questo amore tanto spesso deriso e beffeggiato, che è – si noti bene – amor di morte, perché solo con l’abbandono della vita terrena l’amante platonico può raggiungere l’iperuranio dove la donna amata gli apparirà nella sua forma/idea perfetta e incorruttibile. Fatte le debite distinzioni, la tragica totalità dell’amore platonico è la stessa che percorre la filigrana dei sei Dialogoi di Cerio, che appunto in alternativa platonica potrebbero intitolarsi Contemplazione della morte se a ciò non ostasse – oltre che l’inevitabile evocazione dell’inquietante amor di morte di Pavese – il fatto che in Cerio quel contemplare è un atto di creazione poetica, per di più nutrita di ‘foscoliano’ materialismo, in Piatone invece è un atto di pura teoresi filosofica.
Un amore dai vari volti, dunque, che in quest’opera di Cerio si staglia su un orizzonte di morte, oltre il quale peraltro si intravede il barlume aurorale di una rinascita. In questa prospettiva di riscatto, anche se appena accennata, la tragedia dell’homo humanus si stempera alquanto ed assume una inconfondibile dimensione elegiaca: 1′ “immane cascata” del dolore del mondo, da cui Antigone si dice inondata, può nei Dialogoi essere cantata con i toni della flebilis elegia perché l’attitudine di Cerio al pianto poetico si esercita su un virile (anche se parziale) ‘smaltimento’ vittorioso del dolore stesso, donde la diluizione elegiaca, per così dire diastolica, della sistole tragica che in caso diverso si sarebbe ‘aggrumata’ in una spasmodica e irrimediabile contrazione del “lago del cor”. Da ciò discende un ovvio corollario: le interlocuzioni su cui si articola la struttura dei sei Dialogoi non sono e non vogliono essere “duelli” tragici tra forze inconciliabili, una delle quali debba necessariamente annientare l’altra (questo è, ad esempio, il senso ultimo della tragedia eschilea e sofoclea). Con piena e infallibile consapevolezza Cerio sceglie come interlocutori dei suoi colloqui personaggi che non hanno rapporti antagonistici fra loro: per intenderci, il poeta molisano fa interloquire Antigone non col tiranno Creonte suo nemico, ma con Emone, suo fidanzato innamorato, e ciò vale non solo per le coppie chiaramente omologhe Priamo/Ecuba e Nashimura/Okohani, ma anche per Dedalo/Icaro: la “disobbedienza” scatenata dal gioioso brivido fanciullesco del volo – chè Icaro per il resto si comporta col padre da figlio esemplare – è di fatto “disobbedienza” di Dedalo nei confronti della divinità, che lo punisce tramite la morte del figlio, tragicamente “ucciso” in volo da lui divenuto esecutore inconsapevole della punizione; e si noti che entrambi volano imitando nel volo – e nella morte: ogni padre “muore” nel figlio che muore – il ‘volatile’ Perdice, cioè “Pernice”, anche lui discendente del mitico artefice, da cui è stato ucciso (Icaro: “Terribile colpa scontiamo”… Dedalo: “Gli déi mi puniscono ancora / con la tua morte”). Lo stesso dicasi della coppia Fedra/Ippolito, il cui mito – in nome della provvidenziale licentia vatum – è rinnovato e adattato alla struttura ideologica dei Dialogoi: non a caso il duplice colloquio fra i due si conclude con un ‘sigillo’ (“Com’è amara, amara la morte”) pronunciato -vorrei dire cantato – all’unisono da Fedra e Ippolito per sottolineare la perfetta sintonia fra i due.
Ciò stabilito, potremmo domandarci stupiti il perché della scelta di una struttura dialogico-drammatica per un’opera – destinata anche alla messinscena teatrale – la cui teatralità, pur di alto livello, sembra essere quella di una lauda o di un ‘oratorio’ liturgico. La risposta a questa domanda ci viene suggerita proprio dalla provocatorietà di tale scelta di poetica. Nell’ottica planetaria di Cerio l’esplosione tragica dello scontro irriducibile tra uomini non trova spazio: la catastrofe del pianeta è addebitata all’insipienza dell’umanità intera, anche dell’umanità ambientalista che non soffre e non lotta abbastanza per la sopravvivenza della specie umana (se di tragico scontro si vuol parlare, l’antagonista da chiamare in causa per un suo tremendo e distruttivo duello con l’umanità è l’Ananke evocata da Ecuba; e la socratica (nonché pavesiana) struttura binaria del “dialogo a due personaggi”, preferita da Cerio, rispecchia quell’irriducibile contrasto di fondo soltanto per analogia ‘ritmica’ e ‘deittica': si pensi alla ben nota scansione ‘agonale’ segnata nella lingua greca – la stessa del titolo dell’opera qui presentata! – dalle particelle men e de). Gli esseri umani, pertanto, nei Dialogoi non possono che unirsi concordi nella denuncia e nel monito; e la pur cospicua vena dialettica che percorre l’opera ceriana non può che essere, in ultima analisi, quella di un grande e appassionato monologo dell’autore stesso, e questa peculiarità non deve stupire: Cerio è essenzialmente, direi irriducibilmente, un poeta lirico, e l’oggettività del dramma è la veste per così dire mediterranea e solare dei suoi discorsi intcriori. Certamente a questa espansione oggettiva il poeta di Larino è sospinto dalla nobilissima ed eteronoma vocazione all’impegno civile radicata in lui da una lunga militanza politica, ma ciò non impedisce di riconoscere in ognuno egli interlocutori della sua pièce esadica – piena di appassionata intelligenza e balenante di suggestive e indimenticabili folgorazioni fantastiche – i lineamenti inconfondibili del loro poeta creatore; e ciò va detto a prescindere dalla troppo invadente ‘liricità’ postulata dall’idealismo per qual si voglia opera d’arte, indipendentemente dal genere poetico di appartenenza. Il giovane Virgilio dei “dialogoi” pastorali delle Bucoliche, anche lui attanagliato da una profonda e drammatica crisi della società ‘globale’ del suo tempo, e irresistibilmente portato ad ascoltare la propria voce nella voce di tutti i suoi pastori, ha fatto scuola, trovando in Cerio un adepto d’eccezione.
“ILPOST-UMANO
di Massimo Pamio
Cogliere il fine, il senso tragico dell’esistenza – in questo riallacciandosi alla classicità, ovvero alla linea alta della letteratura del passato, quella che, mediante i suoi autori migliori, ha compiuto la ricognizione più profonda sulla condizione dell’uomo e ha ricavato enumerato e sviscerato compiutamente le diverse ipotesi di senso tratte dalle analisi filosofiche più stringenti, i conseguenti atteggiamenti, le risposte eroiche e le posizioni drammaticamente inquiete o disincantate – ecco l’oggetto e il fine dei Dialoghi di Umberto Cerio, poeta di grande spessore e maturità, avvertito cantore della crisi e del dramma della civiltà occidentale la quale, sebbene giunta ad esaurire il proprio compito e la propria missione sociale ed antropologica attualmente organizzata su basi consumistiche e spettacolari, tuttavia non sazia della propria agonia, tende a diffonderla, a riprodurla e spenderla attorno a sé, facendosi foriera di morte e di distruzione, a rischio della sopravvivenza dell’intera specie.
Tra gli animali l’essere più sfortunato, votato alla conoscenza delle rovine e della fine individuale e collettiva, attore e spettatore privilegiato della sparizione di popoli interi e di nazioni, di specie animali e vegetali, l’uomo sembra incapace di modificare in positivo il Destino, le leggi del Fato o di Dio.
Nonostante queste premesse, l’assistere impotente alla fine della propria specie appare comunque condanna crudelissima per l’uomo moderno che, ironia della sorte, risulta bene attrezzato per farsi carico della visione dell’accadimento ultimo, in virtù di una abilità tecnologica e scientifica impareggiabile, raggiunta anche con l’invenzione di mass media sofisticati che lo inchiodano alla condizione di testimone oculare schiavo degli schermi più perfetti di trasmissione in diretta della catastrofe apocalittica, pronto ad assistere, purché comodamente seduto su una poltrona anatomica in una asettica stanza provvista di condizionatore d’aria, alle conclusive efferatezze che coinvolgono e colpiscono la sua specie.
È pur vero che l’uomo si è preparato una collettiva fine spettacolare, con tanto di fragorosi botti e fuochi artificiali da ultimo giorno dell'(ultimo) anno e che ci sia, da parte sua, una predisposizione al festeggiamento spensierato e incosciente -prova ne è il caso assurto a simbolo universale del Titanic.
Di quello che si rivela sempre più come il vero volto della storia, vengono illustrati, nell’opera di Cerio, in ardite sintesi mito-grafiche e simboliche, i passi salienti, compiuti tra rivolte e rifiuti, che evidenziano la stoltezza e la grottesca arroganza dei potenti e degli uomini in genere: dal superamento della dimensione della sacertà e dall’oltraggio nei confronti degli dei pagani all’abbandono della lealtà nel combattimento, all’uso dell’inganno e del tradimento nella guerra, dalla nascita della tirannia e dalla trasgressione al principio del rispetto dei vincoli di sangue e delle leggi divine al peccato della hybris, alla disubbidienza all’eredità trasmessa dagli avi, alla professione della superbia umana, allo spiegarsi della violenza più cieca, fino all’esplosione della bomba atomica che segna l’inizio dell’apocalisse finale.
Questo paesaggio cieco attraversato dalla ferocia più inaudita e dalla tracotanza più brutale, sigillato da leggi sociali e divine che concorrono a rendere l’esistenza un labirinto senza uscite che si richiude sul vivente esposto alla violenza dell’illusione e all’inutile perché perdente cammino della speranza, viene illuminato sempre dalla prospettiva, dal punto di vista di due persone, spesso legate da vincoli d’amore o d’affetto, che, se da un lato testimoniano l’ambiguità e l’ambivalenza del reale, e dunque l’impossibilità per l’uomo di accedere a una concezione unitaria, non scissa, non spaccata in due, dall’altro evidenziano l’unico spiraglio che offre all’individuo i momenti più esaltanti e gioiosi: il principio della solidarietà. La solidarietà a due, unico sollievo all’inferno, al deserto del mondo, costituisce il Doppio ma anche lo specchio dello sguardo che l’uomo rivolge verso di sé grazie all’Altro, scoprendosi fragile ma anche rispettoso, capace di perdonare e di amare.
Nella finzione scenica il riscatto (o il ricatto?) a due rende più romantico il canto del cigno recitato dagli innamorati Nashimura e Okohani. Salvo poi riscontrare sotto forma di anime trapassate (quelle di Priamo ed Ecuba, ma potrebbero anche essere quelle delle altre coppie protagoniste dei Dialoghi) lo sgomento per ciò che inevitabilmente è stato compiuto. Tutto è trascorso invano, l’uomo è stato creato affinchè scompaia: “Le due ombre si alzeranno e si allontaneranno lentamente, verso il non-luogo. Usciranno dalla scena e resteranno ancora per poco illuminate le sole rovine. Le luci si affievoliranno lentamente fino a spegnersi e lasciare tutto al buio, perché tutto scompaia”. Sono le ultime indicazioni di scena: nello stigmatizzare la fine del sogno del progresso inarrestabile dell’uomo, prima greco poi rinascimentale e leonardesco ed infine illuminista e pragmatista e scientista (l’uomo misura di tutte le cose), l’autore larinese espleta la visione mitografica del post-umano: l’infinire delle rovine prive dello sguardo di colui che le ha provocate.
da “incesto”